Barbuccia, la strega di San Miniato

di Valerio Vallini
 
Giornate cortissime, brumose. Tempo di streghe è dicembre. E proprio di queste, grazie allo spunto datogli da Francesco Fiumalbi del noto blog SMATARC, ci vuole parlare quest’oggi lo storico Valerio Vallini in quella che è la storia della strega sanminiatese Barbuccia. Una storia meno nota eppure molto simile a quella della più celebre fra le streghe della Toscana della Controriforma, quella Gostanza da Libbiano nata nel 1535 e processata per stregoneria nel 1594 a cui tante opere sono state tributate, fra cui anche il bel film del pisano Paolo Benvenuti (2000).

“La Fonte delle Fate è un luogo sanminiatese che a dispetto del nome romantico nascondeva inquietanti presenze” racconta Vallini. “Una testimonianza in questo senso è rappresentata dal romanzo di Guido Pieragnoli “La Bruna di Poggighisi”, un racconto ambientato nel ‘500, nel periodo dell’assedio e conquista di San Miniato da parte degli Spagnoli di Carlo V. Edito in San Miniato, dalla Tipografia Bongi nel 1886, narra le vicissitudini amorose e politiche che gravitano attorno alla giovane Bianca, la Bruna di Poggighisi, contesa fra il sanminiatese Messer Goro e lo spagnolo Capitano Ruiz. Uno dei personaggi attorno al quale ruotano le vicende del romanzo è la Strega Barbuccia, una sorta di chiromante alla quale la popolazione si rivolge per conoscere il proprio destino”. Di seguito vengono riportati alcuni brani che parlano della Strega Barbuccia e del posto dove si era insediata. 
 
“Oltre la sua orridezza – scrive il Peragnoli – quel luogo aveva anche una storia o, meglio, una leggenda paurosa, sicché ognuno ne rifuggiva, e nemmeno il cacciatore azzardavasi per quelle parti, quantunque sapesse che quegli sterpi e quei gruppetti d’acacie ponessero volentieri e numerose i loro nidi le lepri e i conigli selvatici. Erano ormai diversi anni che le paurose fiabe di spiriti e di streghe avevano fatto abbandonare da tutti quei luoghi – vi si diceva che la notte vedevansi aggirare se quel precipizio mille fantasmi, vi si sentivano urli di pazzi, suoni strampalati e rauchi, rumori infernali, e a quando a quando vedevansi vagare in quella solitudine frotte di lumicini misteriosi.
 
Anche di giorno, si diceva, chi vi si avventurasse a passare in quelle vicinanze si sentiva come inseguito da un essere in grado ad internarsi nella boscaglia di acacie, ove una frotta di demoni, sotto le sembianze di fate affascinatrici, lo circondava, e, dopo avergli fatto apparire dinanzi, in mezzo a fasci di luce, tutte le bellezze e gli incanti del Paradiso, o lo uccidevano cibandosi poi delle sue carni, o lo cangiavano a bestia o in tronco d’albero! Ed era voce comune in paese che quei pochi, i quali, o per spavalderia, o per altra ragione, eransi avventurati nel luogo maledetto, non erano più ritornati. Queste idee superstiziose poi, queste generazioni, o degenerazioni, di una fantasia malata venivano anco rinvigorite dalle favole, dai romanzi e poemi che si scrivevano in quei tempi, che venivano letti da tutti e che il popolo cantava continuamente – (…).
 
Il luogo di cui sopra abbiamo parlato, e che ancora nel suo nome – Fonti delle Fate – ricorda superstizioni e paure, era, ai tempi in cui seguono i fatti da noi narrati, frequentato fuor dell’ordinario, e tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, vi si avventuravano tenendo tutti la medesima direzione, come se mirassero ad una meta comune: l’incontro con la strega Barbuccia.Oltre tutto poi, quella donna aveva d’intorno a sé qualche cosa di fosco e di lugubre; pareva che l’avvolgesse tutta una nebbia, una caligine piena di terrore: le sue carni erano abitualmente presso che ghiacce, e se per caso fosse giunta a toccarti, quel tocco ti faceva l’effetto medesimo del corpo ghiaccio di un serpente che ti avvinghiasse la mano. Aveva un modo di ridere poi, che, piuttosto che un sorriso, ti sembrava una ferita schifosa che si aprisse, poiché le labbra sottili e cadenti si schiudevano dilatandosi, e scoprivano l’ampia bocca sdentata, rossa di un rosso sanguigno. Barbuccia, da donna tetra e fosca qual era, aveva voluto porre la sua dimora nel luogo più orrido dei dintorni. In quella parte di campagna che abbiamo descritta, e che i Samminiatesi ritenevano da sì lungo tempo come un luogo maledetto; fu là che la strega fondò, per così dire, il suo palazzo, ove ogni giorno concorrevano a frotta i credenzoni, che lasciavano poi nel grembo della megera dei bravi baiocchi.
 
“Il racconto del Peragnoli – conclude Vallini – ci pare interessante perché immerge in un clima che durerà a lungo nelle nostre campagne. Anche negli anni cinquanta del Novecento non era raro sentire nelle campagne sotto Cigoli, al mulino dell’Egola, come nelle vallecole di Stibbio, storie di malocchi, anzi “mardocchi” che spiegavano malattie del fisico e della mente. E contro queste era un dilagare di  segnature e incantesimi”.

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