Sposa un boss, negato il dissequestro dei beni

Diniego della Cassazione per rientrare in possesso di quote di una società di S. Miniato

Sposare un boss di ‘ndrangheta, appartenente a una delle più potenti e feroce cosche calabresi, con inevitabili conseguenze giudiziarie, alla fine porta comunque verso “danni collaterali” pur rimanendo fuori, almeno da un punto di vista giudiziario, dagli “affari” del marito. E’ la storia di una cittadina lucchese di 41 anni, sposata con un mammasantissima del clan di Sinopoli in provincia di Reggio Calabria, che è finita in una recente sentenza della Cassazione per aver inoltrato un ricorso con il marito, come terza interessata, per chiedere il dissequestro di alcuni beni che già la corte d’Appello aveva rigettato, disponendo la restituzione solo di alcuni beni ritenuti estranei alle vicende legate alla malavita organizzata. Anche gli ermellini hanno dichiarato inammissibili i ricorsi dei due coniugi rimarcando la caratura e pericolosità del marito.

Si tratta di alcune quote societarie di aziende che avevano sedi tra la Garfagnana e San Miniato, alcune automobili, e alcuni conti correnti bancari e postali e polizze assicurative. L’uomo era stato arrestato anni fa proprio in Versilia, dopo un periodo di latitanza. Nel ricorso l’uomo chiedeva anche l’annullamento del decreto di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno per la durata di anni cinque. Categorica la risposta della Cassazione che ha respinto tutti i ricorsi condannando entrambi alle spese processuali e a 3mila euro di ammenda. Si legge infatti in sentenza: “Nella individuazione del presupposto soggettivo per l’applicabilità della misura di prevenzione personale, la corte di Appello ravvisava una pericolosità qualificata e generica alla luce degli elementi ricavati: dal processo penale definito con sentenza irrevocabile di condanna, per il reato associativo finalizzato al traffico internazionale di stupefacenti; dal processo penale ancora in corso, approdato, allo stato, a una sentenza di secondo grado, di condanna alla pena di anni venti di reclusione per gli stessi reati; L’uomo è stato riconosciuto come capo, promotore e organizzatore della associazione di narcotraffico che si occupava dell’importazione dall’estero di ingenti carichi di stupefacenti destinati; commercio gestito in qualità di referente del clan di ‘ndrangheta di Sinopoli”.

E inoltre: “I giudici della prevenzione hanno congruamente motivato – in modo autonomo – a proposito degli elementi probatori (intercettazioni, dichiarazioni dei collaboratori di giustizia) emersi a sostegno del fatto che l’uomo è soggetto non solo colpito da indizi concreti di coinvolgimento nel reato associativo sopra ma, in più, persona che vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose e che è dedita alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sanità pubblica, senza che rilevi la circostanza che il processo più recente non sia stato ancora definito con sentenza irrevocabile di condanna”. Per quel che riguarda alcuni dei beni e alcune somme confiscate, per la Cassazione, una parte risultava intestata al marito, mentre gli altri risultavano intestati alla moglie e rispetto a un conto corrente postale, la corte di Appello aveva escluso che su quel conto confluisse esclusivamente l’indennità di disoccupazione della donna. Da queste motivazioni la sentenza di inammissibilità dei ricorsi dei due coniugi, lei lucchese lui di Sinopoli. Per i giudici il boss di ‘ndrangheta ha dimostrato, negli anni, la capacità di ricostituzione di una associazione di narcotraffico in un territorio diverso da quello della prima associazione, e a distanza di diversi anni. Infine sempre per i giudici avrebbe avuto un ruolo di referente del clan calabrese in altre regioni comprese la Toscana e col passare del tempo avrebbe assunto una posizione di vertice e una capacità di organizzare l’importazione di carichi di stupefacenti diretti dal Sudamerica verso i più importanti porti italiani e toscani, grazie alla rete di rapporti internazionali che evidentemente si è costruito nel tempo e la detenzione non è risultata connotata da “favorevoli e pregnanti adesioni al trattamento rieducativo e socializzante”.

La presenza della ‘ndrangheta in Toscana, in Lucchesia, nel distretto del Cuoio, in Versilia, a Prato e in altre zone è ormai nota agli investigatori, in relazione al traffico di cocaina, sfruttando il porto di Livorno, ad attività di riciclaggio e altri business come afferma l’ultima relazione della Dia. “Il ricco tessuto socio-economico toscano alimenta gli interessi delle consorterie criminali che indirizzando le attività illecite su quel territorio riescono a penetrare i floridi settori dell’economia legale per il reinvestimento delle liquidità di illecita provenienza. Sebbene, infatti, le mafie non esprimano nella regione uno stabile radicamento territoriale la Toscana si conferma come una delle aree privilegiate per attività di riciclaggio e più in generale per la realizzazione di reati economico-finanziari su larga scala. I preoccupanti segnali di pervasività criminale potrebbero assumere una configurazione di più ampia portata alla luce dell’attuale emergenza sanitaria che ha creato particolari condizioni di vulnerabilità, disoccupazione e crisi di liquidità tanto da costituire terreno fertile per il cosiddetto welfare criminale di prossimità pericolosamente subdolo al pari della pandemia”.

Come ha sottolineato con veemenza il procuratore generale presso la corte d’Appello di Firenze, Marcello Viola, nei giorni scorsi, durante la cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario, e come testimoniano numerosi processi penali e indagini in corso. Proprio nei giorni scorsi, invece, in Valdera sono stati sequestrati beni per un valore di 5 milioni di euro a Francesco Lerose, imprenditore calabrese attivo in Toscana nel settore dei rifiuti, già arrestato lo scorso aprile nell’operazione denominata ”Keu”, dal nome del rifiuto derivante dall’attività di concia delle pelli che, nonostante presentasse particolari criticità ambientali, era stato riutilizzato per sottofondi stradali, terreni agricoli e opere pubbliche. L’operazione è stata portata avanti dalla Direzione investigativa antimafia (Dia), dal Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri (Noe) e dai Nuclei investigativi di Polizia ambientale agroalimentare e forestale (Nipaaf) di Firenze nell’ambito di un’attività congiunta e coordinata dalla Procura di Firenze.

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